Polyus

Il satellite Polyus: le guerre stellari sovietiche

Polyus (Polo in russo) è il nome con cui è conosciuto un veicolo spaziale sperimentale sovietico, lanciato nel 1987 e mai arrivato in orbita a causa di un malfunzionamento. La funzione esatta di questo apparato (conosciuto anche con il nome di Skif-DM o con il codice GRAU 17F19DM) ancora oggi non è chiara. I russi continuano a sostenere che si trattava di un laboratorio orbitale per esperimenti nella parte alta dell’atmosfera, mentre voci piuttosto attendibili riferiscono che in realtà fosse il prototipo di una stazione spaziale da battaglia. Qualunque cosa fosse, è stato il più grande “satellite” mai costruito, ed i suoi resti giacciono sul fondo dell’oceano Pacifico.

Antefatti: il programma Buran

Non è possibile parlare del Polyus senza citare il programma Buran, almeno nelle linee generali. Il Buran è definito come lo “Space Shuttle sovietico”, vista la sua grande somiglianza con l’equivalente americano. Il suo sviluppo iniziò nella seconda metà degli anni settanta, e fu probabilmente il più costoso e complesso programma spaziale mai portato avanti dall’Unione Sovietica. I sovietici hanno sempre sostenuto di aver progettato da zero ogni singolo componente e che la somiglianza fosse casuale, ma non si esclude che i progettisti possano comunque essersi ispirati a materiale frutto di operazioni di spionaggio. La cosa certa è che, dal punto di vista tecnico, si trattava di due cose molto diverse.

Senza andare ad analizzare il programma Buran troppo nel dettaglio (ci hanno scritto sopra libri interi), mi limiterò a dire che per certi versi la versione sovietica era più avanzata di quella statunitense (maggiore carico utile, presenza di un pilota automatico che permetteva missioni senza equipaggio).

Parlando del satellite Polyus, la differenza che più ci interessa è legata alla propulsione. Tralasciando i due booster laterali, lo Space Shuttle, per andare in orbita, utilizzava tre motori montati direttamente sull’orbiter (sarebbe la navicella), che prendevano il carburante dal gigantesco serbatoio posto sotto di esso (sarebbe quel coso gigante arancione chiaro a forma di siluro posto sotto allo Shuttle. Si chiama External Tank). L’orbiter Buran, invece, non aveva un sistema di propulsione principale: per andare nello spazio utilizzava un razzo gigante, chiamato Energia, anche lui agganciato alla parte inferiore della navicella.

Energia e Buran sulla rampa di lancio
Raffigurazione del razzo gigante Energia con il Buran, pronti al lancio. Fonte: Wikimedia Commons. Credits: autore sconosciuto, DIA. US Public Domain

L’Energia era un colosso alto quasi sessanta metri e pesante al lancio 2.500 tonnellate, capace di portare in orbita bassa, secondo i calcoli dei progettisti, circa 100 tonnellate di carico. Aveva solo un piccolo problema: un singolo lancio costava 764 milioni di dollari del 1985.

Le origini del Polyus

Tutte le cose hanno una loro “prima volta”: primi passi, primo bagnetto, primo bacio, prima denuncia, primo volo, prima sigaretta, ecc. I lanciatori spaziali ovviamente non fanno eccezione. Infatti, si possono avere i migliori progettisti, simulare al computer ogni singolo passaggio, lasciare un motore a funzionare per ore ad un banco di prova, ma il momento decisivo sarà sempre quando il razzo è sulla rampa e si accendono i motori: solo allora si saprà se effettivamente funziona oppure no.

Il primo volo dell’Energia era previsto nell’autunno 1986. Tuttavia, divenne chiaro che per quella data il Buran non sarebbe stato pronto. Inoltre, probabilmente, ai responsabili del programma era venuto qualche scrupolo: provare a spedire nello spazio una sofisticata navicella nuova usando un razzo al suo primo lancio poteva non essere un’idea geniale. Quindi, nel 1985, si decise di costruire un mokup del Buran: una sorta di simulatore di massa da un centinaio di tonnellate da montare sull’Energia per verificarne il comportamento in condizioni reali. Niente di troppo complicato, quindi. Poco dopo, però, il ministero dell’industria cambiò idea: invece di un mokup, ordinò la realizzazione di un vero e proprio “spacecraft” funzionante per svolgere esperimenti nello spazio circumterrestre (quello più vicino alla Terra, per capirsi).

La richiesta aveva una sua logica: dovendo spendere un pacco di soldi per testare un razzo, tanto valeva usarlo per mandare qualcosa nello spazio. Il problema erano i tempi: solitamente, per realizzare uno “spacecraft” di quella complessità e dimensioni erano necessari circa cinque anni, ed i tecnici ne avevano a disposizione poco più di uno. Per non parlare del tempo necessario a produrre e testare i singoli componenti! Componenti che, oltretutto, avrebbero dovuto essere testati singolarmente in varie missioni, piuttosto che tutti insieme in quella che sostanzialmente era una vera e propria stazione spaziale. I tecnici, quindi, per rientrare nei tempi (e probabilmente anche nei costi), furono costretti ad utilizzare componenti avanzati e parti di ricambio di altri satelliti o stazioni spaziali, che tra l’altro fu necessario assemblare con una certa fretta. Questo fu il principale motivo del fallimento della missione.

Descrizione del Polyus

Il Polyus, alla fine della costruzione, si presentava come una specie di cilindro lungo 37 metri e dal diametro di 4,1, per un peso complessivo di 80 tonnellate. Queste dimensioni ne fanno il più grande satellite mai costruito: una specie di “siluro” che andava montato sul dorso del lanciatore Energia. Dal punto di vista tecnico, era composto da due sezioni.

  • Modulo di servizio/funzionale. Era la parte più piccola del satellite. Esteticamente era piuttosto simile ad una navicella Salyut, realizzata con parti di ricambio di altri veicoli spaziali: componenti del modulo funzionale (FGB) del TKS (una navicella per voli spaziali umani, usata per il rifornimento delle stazioni spaziali Salyut/Almaz) e di un satellite spia del tipo Zenit. In questo modulo era montata la strumentazione per il controllo, le comunicazioni, l’impianto di raffreddamento ed alcune apparecchiature scientifiche. Il tutto era alimentato da pannelli solari. Inoltre, vi erano anche dei piccoli motori a razzo per le manovre orbitali.
  • Modulo di missione. Questo modulo era quello che conteneva il carico di missione. Era stato realizzato con parti della stazione spaziale Mir-2, allora in fase di studio. Su di esso erano montati anche i motori principali.

In breve, quindi, si trattava di un grosso modulo sperimentale al quale era stata agganciata una versione modificata del TKS per le manovre orbitali. Alcune fonti ritengono che questo modulo non fosse permanente: che potesse cioè essere sganciato e sostituito, oltre che ospitare cosmonauti. La cosa è abbastanza inverosimile, visto che era composto da parti dell’FGB: un modulo cargo privo di sistemi di supporto vitale. Stesso discorso per le capacità di rifornimento e “docking” (agganciarsi ad un altro “spacecraft”), che sarebbero stati possibili grazie ad un portello di prua, compatibile con la navicella Buran (o con la futura Mir-2). Questo portello, nell’ipotesi che sia veramente esistito (si, ci sono dubbi anche su questo), potrebbe essere stato un semplice “residuato” di uno dei vari TKS usati per comporre il modulo funzionale: era lì, non c’era tempo per riprogettare il tutto ed è stato lasciato non funzionante.

Modulo TKS
Modello del modulo TKS. Fonte: Wikimedia Commons. Credits:
Stefanwotzlaw. CC BY-SA 3.0

Veniamo adesso all’equipaggiamento di missione, ovvero: a cosa doveva servire il Polyus?

Ipotesi civile: il Polyus come stazione spaziale sperimentale

La versione ufficiale, sostenuta ancora oggi dalla Russia e mai smentita neanche dagli americani, è che si trattasse di uno “spacecraft” con a bordo alcuni esperimenti. Questi erano di vario tipo: alcuni erano più tecnici, e riguardavano la struttura della stazione, come ad esempio studi su componenti di grandi dimensioni, oppure sul funzionamento dei vari moduli. Altri riguardavano la geofisica. In particolare:

  • generazione di onde gravitazionali artificiali negli strati alti dell’atmosfera;
  • creazione di un effetto-dinamo nella ionosfera;
  • generare segnali ionizzati a onda lunga.

Per svolgere questi esperimenti era stato equipaggiato con 420 kg di xenon e kripton, oltre che di un sistema di emissione nella ionosfera.

Ipotesi militare: il Polyus come stazione spaziale da combattimento

Secondo molti, in realtà, il Polyus non avrebbe avuto niente di civile: si sarebbe trattato infatti di una vera e propria stazione spaziale da battaglia, in risposta al programma SDI statunitense (un sistema di intercettori, aerei terrestri e spaziali, capace di proteggere gli Stati Uniti da un attacco nucleare sovietico. Quello che viene comunemente chiamato il programma Guerre Stellari di Reagan). Il suo equipaggiamento di missione sarebbe stato costituito da un laser ad alta potenza capace di abbattere satelliti e veicoli di rientro nucleari, ed in generale avrebbe potuto rendere inoffensiva la componente spaziale dell’SDI. Oltre a questo, avrebbe avuto anche sistemi di difesa passiva ed attiva dalle armi antisatellite (da alcune parti si trovano anche ipotesi riguardo sistemi per il rilascio di mine nucleari, oltre che un cannone). Insomma, un vero e proprio “mostro”, che secondo alcuni avrebbe potuto addirittura cambiare l’esito della guerra fredda!

Polyus
Spaccato del Polyus. Fonte: Wikimedia Commons. Credits: NASA. US Public Domain

Il satellite Polyus come dimostratore di tecnologia

Come tutte le cose, probabilmente la verità sta nel mezzo: ad un’attenta analisi, il Polyus potrebbe essere stato una sorta di “dimostratore di tecnologia” per armi spaziali, in risposta al programma SDI, con una serie di esperimenti scientifici a bordo. Inoltre, il suo nome originale sarebbe stato Skif-DM: venne battezzato Polyus solo successivamente.

Ma andiamo con ordine. Nel 1972 l’Unione sovietica aveva ratificato il trattato sulla limitazione per i sistemi anti missile balistico (i cosiddetti ABM). La cosa tuttavia non fermò i vertici del Paese socialista, che incaricarono, più o meno nello stesso periodo, l’NPO Energia di Valentin Glushko di studiare una serie di armi per condurre operazioni di guerra nello Spazio: una palese violazione del trattato, cosa che fecero pure gli stati Uniti nel 1983 quando il presidente Ronald Reagan avviò la SDI.

In breve, si trattava di studiare la fattibilità di realizzare veicoli spaziali capaci di distruggere arei militari, missili balistici in volo e tutta una serie di obiettivi terrestri, marittimi ed aeronautici. Questa sorta di “SDI sovietico” si concretizzò nella concezione di due veicoli:

  • un satellite armato di missili, il 17F111 Kaskad;
  • un satellite armato con un laser, il 17F19 Skif.

Nel 1981, quando si passò dalla fase teorica a quella progettuale, entrò in gioco il KB Salyut: questo ufficio tecnico venne incaricato della progettazione definitiva dei due sistemi d’arma. Due anni dopo, il segretario generale Yuri Andropov bloccò tutto, ma Gorbachev, nel 1985, ordinò la ripresa degli studi.

Arriviamo quindi alla fatidica data del 1985, quando ci si accorse che il Buran non sarebbe mai stato pronto in tempo per il lancio dell’Energia. All’epoca il KB Salyut costruiva o stava sviluppando un discreto numero di veicoli spaziali. Tra questi, vi era il già citato Skif: a parte alcuni sistemi già stati realizzati che erano in fase più o meno avanzata di test, di veramente pronto non c’era nulla e lo stesso spacecraft era ancora un semplice disegno su un foglio di carta.

Fu solo a questo punto che si decise di realizzare a tutta velocità una sorta di “banco-prova” dello Skif, approfittando del previsto lancio del super razzo Energia. E, come detto sopra, lo fecero nel modo più rapido possibile: utilizzando componenti avanzati da altri satelliti, e montando nel modulo di missione tutto quello che esisteva di pronto, ovvero molto poco. Quindi, il nuovo spacecraft venne battezzato Skif-DM, dove D sta per “dimostrativo” e M per “mokup”.

Lo scopo di questo veicolo, quindi, sarebbe stato essenzialmente quello di testare i vari sistemi del modulo funzionale, il sistema di sfogo del gas ed il puntamento del laser (oltre, pare, ad un “dispenser” di falsi bersagli per provare il sistema di puntamento). Il fatto che la durata prevista della missione fosse di soli 30 giorni, proverebbe che si trattava solo di un veicolo sperimentale, utile solo per svolgere una serie di test.

Un discorso a parte merita il laser: ci stava lavorando l’NPO Astrofizyka, il massimo ufficio di ricerca sovietico nel campo dei laser. L’Astrofizyka aveva realizzato un prototipo di laser gas-dinamico (un tipo di laser con una bassa efficienza, ma piuttosto semplice da progettare) da un megawatt di potenza, che avrebbe dovuto costituire l’armamento dello Skif. Ma il laser venne effettivamente montato?

Alcuni siti riportano a bordo del satellite Polyus un vero e proprio arsenale (ne abbiamo parlato prima), mentre altri si limitano a citare la presenza del laser. Wikipedia, per esempio, ne parla nelle caratteristiche tecniche. Tuttavia, sembra che in realtà il laser non sia mai stato montato! Infatti, pare che il prototipo non fosse pronto (il Polyus era stato realizzato con una certa fretta), e che oltretutto lo stesso Gorbachev avesse proibito questo tipo di test militari orbitali: non puoi fare dichiarazioni sulla pace nel mondo, dire che il tuo è un Paese pacifico e che sei contro le armi orbitali, se poi mandi in orbita un “siluro” di 37 metri a giocare a “Space Invaders” con i satelliti degli altri!

Il laser montato sul Polyus (o Skif-DM) quindi non era funzionante, ma solo una sorta di copia di dimensioni e peso reale.

Dunque… Cosa resta di questa presunta stazione da battaglia orbitale? Molto poco: si trattava semplicemente di un “banco prova” disarmato per testare in condizioni reali (lo spazio) i sistemi primari funzionali (guida, assetto, comunicazione, ecc.) ed alcune tecnologie legate ad armi antisatellite in via di sviluppo. Non esperimenti civili quindi, ma nemmeno tecnologie in grado di cambiare l’esito della guerra fredda.

Il lancio

Ultimato a tempo di record, il gigantesco satellite Polyus venne trasportato a Baikonur nel gennaio 1987. Qui fu rifornito di carburante e gas, montato sul razzo Energia e sottoposto a tutti i test pre-volo. Oltre a questo, venne anche dipinto di nero (non è chiaro se si trattasse di una vernice radar assorbente o di un sistema per controllare la temperatura interna. Oppure di entrambe le cose…), e ribattezzato Polyus, nome sicuramente più carino di Skif-DM. Il nuovo nome venne scritto in bianco su uno dei lati. Sull’altro lato, invece, venne posta la scritta Mir-2, forse per esaltarne la natura “civile”. Ovviamente il Polyus non aveva alcun legame né con la Mir-2, allora in fase di sviluppo, né con la Mir vera e propria. A proposito: mir in russo vuol dire “pace”.

Razzo energia su trasportatore
Il razzo gigante Energia sul trasportatore, diretto alla rampa di lancio. Fonte: Wikimedia Commons. Credits: Аркадий Тарасов. CC BY-SA 3.0

Il 15 maggio, finalmente, il Polyus venne lanciato: alla presenza del premier sovietico Gorbachev, il gigantesco Energia accese i motori, e portò lo Skif-DM in orbita. Dopo 460 secondi, a 110 km di quota, il Polyus si separò dal suo vettore, esattamente come previsto dai progettisti: il super razzo aveva fatto il suo dovere, ora toccava al suo carico. E qui le cose andarono male.

La destinazione finale del satellite Polyus era un’orbita circolare di 280 km. Quindi, lo spacecraft avrebbe dovuto effettuare una rotazione di 180° (per motivi tecnici era stato agganciato all’Energia sottosopra), accendere i motori principali e dirigersi verso la sua destinazione finale a circa 60 metri al secondo. Fu qui che le cose andarono storte. Infatti, il Polyus effettuò la sua rotazione, ma invece di fermarsi a 180° fece un giro completo, tornado alla posizione di partenza. Tra le bestemmie la disperazione dei presenti, il colossale apparato accese i suoi motori nella direzione sbagliata, e tornò sulla terra disintegrandosi.

Le cause del fallimento

Cosa era successo? La risposta è molto semplice e purtroppo stupida. Nella fretta di assemblare il Polyus erano stati utilizzati pezzi di altri satelliti: in particolare, il modulo funzionale era una specie di Frankenstein realizzato con pezzi di ricambio di vari TKS, avanzati da altre missioni. In questo modulo vi erano i motori per le manovre orbitali, nonché il sistema di guida: in pratica, il “cervello” del Polyus. Il problema fu tutto qui: i sensori del sistema di guida inerziale non solo furono riciclati, ma non vennero nemmeno testati in modo adeguato. In pratica, delle apparecchiature progettate per una navicella di 14 metri e 17 tonnellate si ritrovarono a dover gestire un colosso di 37 metri che pesava più del quadruplo. Banalizzando al massimo, un po’ come montare la centralina di una FIAT Panda su un’Audi A8.

Un errore software, quindi, i cui responsabili furono mandati a piedi in Siberia licenziati o degradati.

Gli americani non commentarono mai la missione fallita, né rivelarono le loro informazioni sulla vera natura del Polyus. Il suo relitto giace sul fondo del Pacifico meridionale, ad una profondità di oltre 2.500 metri, e non è mai stato ispezionato dalla marina statunitense.

Comunque, il fallimento per i sovietici fu solo parziale: il lanciatore Energia aveva funzionato alla perfezione, le strutture di terra erano adeguate ed erano stati raccolti numerosi dati di volo, che sarebbero stati molto utili per il lancio del Buran, il 15 novembre 1988.

Video

Dati tecnici

  • Progettista: KB Salyut
  • Costruttore: KB Salyut
  • Tipologia: satellite sperimentale
  • Data di lancio: 15 maggio 1987
  • Lanciatore: Energia
  • Peso: 80.000 kg
  • Lunghezza: 37 m
  • Diametro: 4,1 m
  • Durata missione: 30 giorni
  • Orbita: circolare a 280 km, con inclinazione di 64°

Fonti

(immagine di copertina tratta da Wikimedia Commons. Credits: Gust.c. CC BY-SA 4.0)

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