Almaz cannone spaziale sovietico

Il cannone spaziale sovietico

Quando si parla di cannoni spaziali, subito si pensa a cose futuristiche, gigantesche, potentissime, capaci di infliggere danni enormi. Per noi, un cannone spaziale è qualcosa di simile alla Morte Nera di Star Wars, oppure “roba grossa” montata su qualche incrociatore stellare.

Bene, un cannone spaziale è stato veramente costruito e testato dall’Unione Sovietica in piena guerra fredda, nel 1975. Si trattava dell’R-23M Kartech, un cannone di derivazione aeronautica da 14,5 mm che fu montato sulla stazione orbitale Salyut 3 e sparò alcuni colpi come prova.

Un’arma misteriosa, che solo negli ultimi anni è stata desecretata e di cui a quanto se ne sa esiste appena una foto (e non è nemmeno sicuro che raffiguri effettivamente la versione installata sulla stazione spaziale!).

Andiamo a conoscerla meglio.

Premesse: le stazioni orbitali militari

Lo Spazio è militarizzato, e pure in modo abbastanza pesante. Senza paura di sbagliare, si può dire che sia sempre stato così. Molte delle tecnologie “space based” che utilizziamo hanno un’origine militare: basti pensare al GPS, oppure ai satelliti per l’osservazione della Terra (che nascono per osservare le basi militari altrui)… Insomma, fin dall’inizio le forze armate dei vari Paesi (soprattutto delle due superpotenze, dato che erano le uniche a potersi permettere gli enormi investimenti necessari) hanno spinto moltissimo per la realizzazione di sistemi spaziali militari.

Quando pensiamo alle applicazioni militari dello Spazio, ci vengono subito in mente i satelliti. Bene, nei ruggenti anni sessanta si pensò anche ad installazioni spaziali militari con equipaggio.

Il Manned Orbiting Laboratory statunitense

I primi ad ufficializzare un programma spaziale militare con equipaggio umano furono gli Stati Uniti con il MOL (Manned Orbiting Laboratory). Di che si trattava? Molto in breve, di un cilindro a punta lungo 21 metri e con un diametro di tre, pesante oltre 14 tonnellate. Nelle intenzioni dei progettisti avrebbe dovuto trasportare due uomini di equipaggio.

Ma a cosa doveva servire? Beh, l’idea era quella di realizzare una “stazione spaziale da ricognizione” con equipaggio umano. I primi satelliti spia avevano un sacco di problemi: le foto erano spesso inutilizzabili, c’era il problema di recuperare i rullini, il meteo era imprevedibile (missioni da milioni di dollari andate a vuoto per colpa di qualche nuvola imprevista sulla base sovietica da fotografare)… Insomma, la situazione non era semplice, tanto che gli Stati Uniti per lungo periodo preferirono i ricognitori. Nel dicembre 1963, quindi, fu ufficializzato il MOL: una stazione orbitale munita di telecamere e macchine fotografiche, che sarebbero state manovrate da personale specializzato direttamente a bordo.

Lo sviluppo però andò molto a rilento: prima la guerra del Vietnam iniziò a drenare i fondi necessari, poi i miglioramenti tecnologici resero i “normali” satelliti artificiali sempre migliori ed affidabili… Per farla breve, fu effettuato un singolo volo di prova senza equipaggio nel 1966, e l’intero programma venne chiuso tre anni dopo.

Il Manned Orbiting Laboratory. Fonte: Wikimedia Commons. Credits: USAF. US Public Domain

La risposta sovietica: le Almaz

Un programma di questo tipo terrorizzò i sovietici. La loro paura, infatti, non era legata tanto alle macchine fotografiche, quanto piuttosto alla possibilità che i MOL trasportassero in segreto armi nucleari, in violazione dei trattati.

Nel 1964, Vladimir Chelomei iniziò a lavorare ad un equivalente del MOL, chiamato Almaz, che ricevette i primi finanziamenti l’anno dopo. Tuttavia, al contrario degli statunitensi che interruppero il programma, lo sviluppo della controparte sovietica andò avanti.

Naturalmente, i sovietici tennero un basso profilo. Infatti, evitarono accuratamente di dire al mondo che stavano portando avanti un programma spaziale militare umano. C’era un problema: come giustificare eventuali lanci? Semplice: “mischiare” le Almaz con delle stazioni orbitali civili, chiamate Salyut. Le due navicelle erano piuttosto diverse, ma questo gli americani sicuramente non l’avrebbero saputo.

Le Almaz-Salyut

Dato che è strettamente legato alle Almaz, vediamo in cosa consisteva il programma Salyut. Bene, stiamo parlando delle prime stazioni spaziali mai realizzate: lunghe circa 20 metri e pesanti oltre 18 tonnellate, avevano alcuni attracchi (uno sulle prime versioni, due sull’ultima) che consentivano ai sovietici di rifornire le stazioni.

Il contributo delle Salyut all’esplorazione spaziale è stato enorme. Per dire, i moduli base della Mir e della ISS sono largamente basato sulle tecnologie del programma Salyut.

Noi però non siamo qui per parlare delle Salyut (che potete tranquillamente approfondire grazie ai link alla fine dell’articolo), ma delle Almaz, o meglio del cannone spaziale.

Come vi ho detto, i militari utilizzarono il programma Salyut come copertura per le Almaz. Quindi, in sostanza, sotto il nome di Salyut furono lanciate due stazioni orbitali diverse, oltretutto progettate da uffici tecnici distinti.

  • Almaz-OPS (Stazione Orbitale Pilotata): versione militare, progettata da Chelomei a partire dal 1964. Equipaggiata con macchine fotografiche e, in almeno un caso, con un cannone.
  • DOS (Stazione orbitale Durevole): versione civile, ovvero le Salyut vere e proprie. Vennero progettate da Korolev, grande rivale di Chelomei nel comparto spaziale sovietico. Erano piuttosto diverse dalle Almaz, dato che avevano più pannelli solari e, nelle ultime versioni, due boccaporti di attracco invece di uno.

Le missioni Salyut

Tutte le missioni Almaz furono codificate come Salyut. Vediamole.

  • Salyut 1 (DOS-1): 19 aprile 1971 – 11 ottobre 1971. La prima stazione spaziale mai realizzata. Dei due equipaggi inviati con navicelle Soyuz, solo uno riuscì ad attraccare, lavorando all’interno per 23 giorni (Soyuz 11). Purtroppo la missione finì in tragedia: i due cosmonauti morirono di asfissia durante il rientro a causa di un problema tecnico alla navicella Soyuz.
  • DOS-2: 29 luglio 1972. Per un malfunzionamento del lanciatore, la Salyut non raggiunse l’orbita e finì in mare.
  • Salyut 2 (OPS-1): 4 aprile 1973 – 28 maggio 1973. La prima stazione militare Almaz. Nessun equipaggio fece in tempo a visitarla, dato che per un problema tecnico perse quota e rientrò in atmosfera.
  • Kosmos-557 (DOS-3): 11 maggio 1973. La navicella non riuscì a raggiungere l’orbita per un problema al controllo di volo (accese i motori in anticipo consumando tutto il carburante) e precipitò in mare. I sovietici cercarono di coprire l’insuccesso codificandola come missione Kosmos. Solo anni dopo ammisero che era una Salyut.
  • Salyut 3 (OPS-2): 25 giugno 1974 – 24 gennaio 1975. Seconda missione Almaz, quella che interessa a noi. Furono inviate due missioni a bordo, di cui solo una riuscì ad attraccare. I cosmonauti utilizzarono l’attrezzatura fotografica di bordo. Il cannone spaziale invece venne fatto sparare da remoto da terra, quando non c’erano uomini a bordo, pochi giorni prima del rientro in atmosfera.
  • Salyut 4 (DOS-4): 26 dicembre 1974 – 3 febbraio 1977. Un successo, rimase in orbita 770 giorni, di cui 92 abitati da due equipaggi.
  • Salyut 5 (OPS-3): 22 giugno 1976 – 8 agosto 1977. Ultima Almaz lanciata. Fu visitata da ben due missioni, con una terza che non riuscì ad agganciarsi ed una quarta che venne cancellata.
  • Salyut 6 (DOS-5): 29 settembre 1977 – 29 luglio 1982. La prima Salyut di una nuova generazione, molto più sofisticata e con parecchi strumenti per esperimenti in più. Totalizzò ben 1.764 giorni in orbita, di cui 683 abitati, con 33 cosmonauti in 18 missioni diverse, un vero record: per la prima volta, qualcosa costruito dall’uomo veniva occupato per così tanto tempo.
  • Salyut 7 (DOS-6): 19 aprile 1982 – 7 febbraio 1991. Ultima missione Salyut. La stazione ebbe vari problemi tecnici, e dopo il 1986 non ricevette più equipaggi umani, data la maggiore priorità della stazione spaziale Mir.
  • DOS-7: doveva trattarsi di una Salyut, ma venne modificato e lanciato per essere il modulo base della Mir. La Mir era totalmente diversa dalle Salyut: queste ultime erano dei “monoblocco”, un pezzo unico, la Mir invece era modulare.
  • DOS-8: largamente basato sull’esperienza delle Salyut, avrebbe dovuto essere il modulo centrale della Mir 2, che però non fu mai costruita. Venne lanciato nel 2000, come modulo centrale della Stazione Orbitale Internazionale (ISS), ed è ancora operativo.

La Salyut 3

Veniamo ora alla grande protagonista di questo articolo, la stazione spaziale Salyut 3. Si trattò della prima Almaz a ricevere un equipaggio umano. Dal punto di vista tecnico, si trattava di un cilindro con due pannelli solari ed un boccaporto di attracco, pesante 18.900 kg al lancio, lungo 14,55 metri e dal diametro massimo di 4,15. Il volume interno era di 90 metri cubi, e poteva ospitare due cosmonauti.

Le parti interessanti, ovvero quelle tipicamente militari, erano due.

Una era il cannone spaziale, che vi racconto nel prossimo paragrafo.

L’altra era un compartimento chiamato Agat-1, equipaggiato con un telescopio per l’osservazione terrestre. Questo era bello grosso, con una focale di 6,375 metri ed una risoluzione di tre metri. Attenzione, questo è quello che dichiararono i russi negli anni novanta: in realtà, molti dettagli su queste stazioni sono ancora oggi classificati. Per dire, la NASA (che di telescopi sicuramente se ne intende) stimò una risoluzione migliore di un metro!

Lo scopo di questo telescopio era, nemmeno a dirlo, militare: serviva principalmente ad osservare basi ed installazioni avversarie. I cosmonauti comunque lo usarono anche per scopi civili, tipo l’inquinamento delle acque, le terre agricole, i ghiacci oceanici…

Il potente telescopio funzionava insieme ad una telecamera, cosa che metteva in grado i cosmonauti di realizzare dei filmati. In pratica, le immagini più importanti erano stampate e scansionate da un apposito sistema di origine televisiva, e poi inviate sulla Terra. Quelle di minor interesse, invece, erano spedite senza troppi complimenti sul nostro pianeta grazie a capsule di rientro espulse dalla stazione stessa.

Va detto che le operazioni erano piuttosto laboriose: per “elaborare” una foto da mandare sulla Terra occorreva mezz’ora.

Complessivamente, la Salyut 3 aveva ben 14 macchine fotografiche.

Il cannone spaziale Rikhter R-23M Kartech

La Salyut 3 era equipaggiata con un cannone spaziale. A quanto ne sappiamo noi, è stato l’unico caso di stazione spaziale con armi a bordo fino ad oggi. Andiamo a vederlo meglio.

Stazione spaziale Almaz
Raffigurazione di una stazione militare sovietica Almaz. Fonte: Wikimedia Commons. Credits: NASA. US Public Domain

Genesi del cannone spaziale

Il cannone spaziale era stato montato per autodifesa: secondo la filosofia sovietica, infatti, le stazioni orbitali con equipaggio umano dovevano essere capaci di difendersi da sole. Una visione forse paranoica, ma dobbiamo considerare che eravamo in piena guerra fredda, con due superpotenze pronte a distruggersi a vicenda solo premendo un bottone.

Comunque, serviva un’arma, che fosse utilizzabile a bordo di un veicolo spaziale. Si decise di partire da un cannone per impiego aeronautico e di modificarlo per i nuovi scopi. Gli uomini dell’ufficio tecnico KB Tochmash (Mosca) iniziarono a lavorare a questo progetto fin dagli anni sessanta.

La sfida era notevole, dato che nessuno aveva mai realizzato qualcosa del genere. Tuttavia, questo gruppo guidato da Aleksandr Nudelman era composto da ingegneri molto esperti in materia di cannoni, dato che li progettavano da anni.

Insomma, era tutta gente che sapeva il fatto suo.

Cannone spaziale sovietico R-23
Il cannone aeronautico R-23 montato in coda ad un Tupolev Tu-22. Fonte: Wikimedia Commons. Credits: Alex Beltyukov – RuSpotters Team. CC BY-SA 3.0

Caratteristiche del cannone spaziale sovietico

Nudelman ed il suo gruppo partirono da un cannone per impiego aeronautico da 23 mm, chiamato R-23. Questo era stato progettato dall’esperto Aron Rikhter, il vice di Nudelman.

Prima due parole sull’R-23. Si tratta di un cannone automatico per impiego aeronautico sviluppato alla fine degli anni cinquanta, la prima arma di questo genere realizzata in Unione Sovietica. Non era molto diffuso, tanto che in Occidente era quasi sconosciuto. Per dire, equipaggiò esclusivamente il bombardiere Tupolev Tu-22 (un esemplare in coda), e fu rimpiazzato nel 1965 dal GSh-23, sempre da 23 mm ma a doppia canna.

Il risultato degli sforzi di Rikhter fu il cosiddetto “sistema di difesa attiva Shchit-1”, che era composto dal cannone spaziale R-23M, da 14,5 mm. Perché farlo di un calibro più piccolo? Beh, per due motivi.

  • Intanto per una questione di pesi: nello Spazio ogni kg è prezioso, quindi un cannone più leggero era bene accetto.
  • Inoltre, per danneggiare un satellite o una stazione orbitale non è che ci voglia chissà che potenza: anche un proiettile relativamente piccolo può fare danni enormi.

Insomma, 14,5 mm andavano più che bene.

Il cannone spaziale Rikhter R-23M era a canna singola, e poteva sparare 200 grammi di proiettile a 690 metri al secondo. La cadenza teorica di tiro andava tra i 950 ed i 5.000 colpi al minuto, e poteva colpire un bersaglio ad una distanza di tre km. Per la cronaca, durante le prove in poligono, riuscì a prendere una tanica di benzina in metallo ad oltre un chilometro e mezzo.

L’R-23M venne installato su una specie di torretta, nella parte bassa della stazione nel lato opposto ai motori di manovra. Il cannone era fisso, cosa che complicava notevolmente tutte le operazioni di tiro.

Come sparare nello Spazio?

Vi sono una serie di operazioni che sulla Terra sono estremamene semplici, mentre nello Spazio diventano un problema. Ovviamente vale anche il contrario.

Bene, sparare è una di quelle cose che possono essere molto complicate.

Prima di tutto per il rinculo: quando un’arma spara, la pressione dei gas sprigionati provoca un movimento all’indietro (a volte con effetti comici). Nello Spazio, dove c’è il vuoto, una cosa del genere è potenzialmente in grado di spostare una stazione spaziale. Ecco quindi il motivo per cui il cannone spaziale fu montato nella parte opposta ai propulsori: era necessario tenerli accesi durante lo sparo, in modo da compensare il rinculo e mantenere nella giusta posizione la Salyut.

Il cannone spaziale poi era fisso. Questo voleva dire che per puntare l’R-23M su un bersaglio, occorreva ruotare quasi 19 tonnellate di stazione!

Insomma, sparare non era affatto semplice.

Il cannone spaziale sovietico spara!

Parecchie cose di questa arma, nonché del programma Almaz, sono ancora oggi secretate, quindi non conosciamo molti particolari ed i retroscena. Probabilmente però i militari erano ansiosi di sapere se il cannone spaziale avrebbe funzionato. Quindi, occorreva un test.

Vi era però un problema di sicurezza. In teoria, i due cosmonauti a bordo avrebbero potuto effettuare le operazioni di sparo loro stessi. Del resto, gli strumenti per puntare il cannone sicuramente non gli mancavano. Però nessuno aveva la più pallida idea di come avrebbe reagito strutturalmente la stazione: c’era la possibilità di un cedimento strutturale che provocasse una depressurizzazione, oppure portasse alla disintegrazione della stazione stessa. Con grande pericolo per la vita dei due cosmonauti.

Quindi, si decise di effettuare il famoso test a fuoco reale il 24 gennaio 1975, poche ore prima che la Salyut 3 rientrasse in atmosfera. Tutte le manovre vennero comandate da terra, dato che la stazione era disabitata dal luglio precedente.

Il cannone spaziale Rikhter R-23M sparò la sua prima e unica volta nello Spazio: un totale di una ventina di colpi, in tre salve distinte, puntato in modo tale da far bruciare i proiettili nell’atmosfera. Da alcune parti si trova anche la notizia che durante il test fu distrutto un satellite bersaglio, ma pare che non sia vero.

La fine del programma Almaz

Complessivamente vennero lanciate tre stazioni Almaz, l’ultima come Salyut 5. La quarta, chiamata OPS-4 era in fase di sviluppo. Avrebbe dovuto contenere un grosso numero di migliorie: nuova strumentazione, due attracchi, e soprattutto il nuovo sistema di difesa attiva Shchit-2. Questo era profondamente diverso dal precedente: non più un cannone (che come abbiamo visto era difficile da usare) ma una coppia di missili a guida radar con testata a frammentazione, capaci di 100 km di gittata.

Delle vere e proprie armi antisatellite, che però non si mossero mai dal nostro pianeta.

Il programma Almaz, infatti, venne interrotto nel 1978, quando l’interesse per le stazioni spaziali militari con equipaggio venne meno. I finanziamenti diminuirono sempre di più, e si cercò di portare avanti lo sviluppo delle cosiddette Almaz-T, che erano senza equipaggio. Ne furono lanciate tre a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, e due di queste raggiunsero con successo l’orbita. Il sistema funzionava, e pure bene, ma lo scioglimento dell’Unione Sovietica e le pessime condizioni dell’economia russa degli anni novanta portarono all’abbandono anche di questo programma.

Una valutazione del cannone spaziale

Il cannone spaziale imbarcato sulla Salyut 3 è stato a lungo un mistero. Per dire, non si sapeva nemmeno il calibro (le ipotesi iniziali erano per un 23 mm, ma si pensò pure ad un 30 mm). Si è poi parlato anche di un satellite fuori servizio (naturalmente sovietico) distrutto durante il test, ma non l’ho riportato perché in giro non ho trovato conferme.

Ma alla fine, il cannone spaziale funzionava? E come?

Beh, alla prima domanda è facile rispondere: si, funzionava. La procedura di sparo era molto complessa, ma il cannone i proiettili li ha sparati sul serio (cosa ammessa dai russi solo negli anni novanta).

Il come è il vero problema. I risultati del test non sono mai stati diffusi dalle autorità sovietiche e russe, quindi non abbiamo idea di come sia andato. I dubbi riguardano più che altro l’efficacia dei propulsori a compensare il rinculo. Per il resto, a quanto se ne sa, la Salyut 3 è rientrata integra nell’atmosfera, quindi almeno non si è disintegrata. Se poi gli spari abbiano provocato danni strutturali, questo lo sanno solo i russi.

Questo test è stato un evento fino ad ora unico, ed è molto difficile che sarà ripetuto, dati i problemi che implica un’operazione come sparare nello Spazio (cosa che infatti portò i sovietici a sviluppare dei missili). Senza contare poi che danneggiare un satellite è piuttosto semplice, e si può fare anche usando i laser o, appunto, versatili missili.

Insomma, non serve per forza un cannone.

Fonti

(immagine di copertina derivata da Wikimedia Commons. Credits: Pulux11. CC BY-SA 4.0)

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